Nel 1883 Giosué Carducci pubblicò il ciclo dei dodici sonetti intitolati Ça ira: un profilo appassionato, in Italia del tutto controcorrente, della Rivoluzione Francese, considerata nel momento decisivo delle stragi di settembre (1792) e della vittoriosa campagna di Valmy.
Tutta la stampa moderata insorse. Carducci fu bersagliato come "terrorista" (cioè ammiratore del Terrore), come difensore del sanguinario Marat e come per nulla indignato narratore (nel sonetto VIII) della feroce esecuzione della principessa di Lamballe. Carducci fu non poco imbarazzato da questa aggressione e contro alcune critiche che quasi lo coinvolgevano nell’uccisione della sventurata principessa, sbottò in legittimo sarcasmo e si chiese se non si pretendesse da lui "un sonettino pieno di soliti improperi cari alle scuole e ai giornalisti d’ordine, magari con un orrendo verso finale indirizzato all’esecutore materiale di quella uccisione: "Oh vile, vile, vile, vile, vile!".
L'epoca in cui venne pubblicato il Ça ira era molto puritana. La principessa di Lamballe morì in modo atroce e "impudico", completamente nuda, dileggiata dalla folla e, qualcuno afferma, anche violata. Leggendo i versi dedicati alla principessa non vi si trova, in realtà, nulla di così scandaloso o irriverente. Carducci era un verista e come tale si limitava a narrare i fatti così come furono, senza far trapelare quale fosse il suo pensiero. Repubblicano convinto, all'epoca in cui scrisse il sonetto e ammiratore dell'ideale rivoluzionario, la critica gli si scagliò subito contro, ma di certo non era nelle sue intenzioni inneggiare all'orrenda fine della Lamballe, anzi nei versi sia pur veristi, ne viene celebrata la purezza, una sorta di agnello sacrificale. Piuttosto anni dopo Carducci si convertì alla monarchia con l'avvento della regina Margherità che lui adorò in senso puramente platonico.
Questi i versi:
Gemono i rivi e mormorano i venti
Freschi a la savoiarda alpe natia.
Qui suon di ferro, e di furore accenti.
Signora di Lamballe, a l’Abbadia.
E giacque, tra i capelli aurei fluenti,
Ignudo corpo in mezzo de la via;
E un parrucchier le membra anco tepenti
Con sanguinose mani allarga e spia.
Come tenera e bianca, e come fina!
Un giglio il collo e tra mughetti pare
Garofano la bocca piccolina.
Su, co’ begli occhi del color del mare,
Su, ricciutella, al Tempio! A la regina
Il buon dí de la morte andiamo a dare.
Concordo con te, una fine mostruosa! Proprio lei che assieme al suocero faceva tanta beneficenza...
RispondiEliminache attroce fine povera Principessa di Lamballe
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